Gocciola. Gocciola. Gocciola. Scandisce
lo spazio lanciandosi da una superficie a quella sotto. Il nero è
così morbido da risultare soffocante, non esistono contorni ma si
capisce che è denso: ad ogni goccia il suono si fa pastoso, resta
incollato alla caduta.
Gocciola. Gocciola. Gocciola. Un
mormorio disperato che sembra non dover finire mai, senza forma se
non il nero. Il suono, non sapendo dove aggrapparsi, cerca pareti con
le unghie, scivola inesorabile nel nulla che lo contiene. Non si
permette la resa e lascia che la materia continui a colare.
Esiste niente ma il sacrificio di ogni
goccia che cade tambura come un conto alla rovescia. Il nero vacilla,
trema per un minuscolo istante: una goccia si lancia e il suono
rimbomba, l'energia esplode in scintilla.
Oggi sono venuto al mondo. Il fuoco si
è impadronito della materia distruggendone la sostanza: è partito
dal centro e con cura ha smantellato ogni singolo elemento. Mai una
volta ho provato la paura mentre i suoi denti incandescenti
rosicchiavano senza sosta i materiali; mai una volta mi sono
prostrato in cerca della sua pietà.
La mia vita è il frutto grezzo della
libertà del fuoco e dell'animo nero e cupo della bellezza: mi fermo
a contemplare l'esterno per trovarmi in qualcosa. Sono come un grumo
di fili annodati e se mi muovo inciampo e cado; silenzioso e leggero
il mio dolore, il mio coraggio. Dalla ferita del cielo arriva il mio
primo respiro che con uno strappo secco si fa spazio nei miei
polmoni, ora sono più profondo.
Mentre respiro ancora giaccio inerme su
un crinale, sento il bisogno di tracciare i mei confini attraverso lo
scontro con il mondo. Voglio capire il sapore del ferro, del legno,
dell'erba sulla mia pelle, mi allungo verso questo desiderio e sento
nascere da me degli arti, si proiettano verso l'esterno come a poter
conquistare il mondo in un istante.
Si aprono due ferite e la luce si
schianta contro il nero che porto dentro, le cicatrici che ne
derivano sono le forme della natura: la caccia è aperta e io sono la
preda di me stesso.
Dai prolungamenti principali ne escono
altri più sottili e inizio a toccare tutto. Sfrego, palpo, modello,
strofino, spezzo: mi costruisco un vocabolario di azioni che
modificando l'esterno modellano me stesso.
Un'anima sottile come un filo d'erba mi
ha tagliato la strada e d'istinto l'ho rincorsa. È fatta di fuoco
nero e denso come il mio e il terrore di perderla di vista mi ha
spinto ad afferrarla, più e più volte. Ogni tentativo mi ustiona le
mani, mi consuma le dita e io non so più lavorare.
Ho perso il controllo e l'effetto del
fuoco è irreversibile: le nostre fiamme non possono piegarsi e
restiamo soli ad ardere cercando di conoscerci di nuovo.
Io divento compulsivo, ripetitivo, più
faccio più godo; sono stanco, sporco, piegato dalla fatica e con il
respiro corto. Sono contento e le piante parlano ai nodi nella mia
testa.
Ogni volta che la natura mi aggredisce
mi provoca una ferita, si prende un pezzo di me che io sostituisco e
rattoppo con qualcos'altro. Prima agisco e poi penso, è l'unico modo
che ho per non sentire il dolore dell'ago che affonda nella pelle.
Ero materiale inerme e senza respiro,
ora sono un insieme di scarti che azzanna il mondo in una corsa
compulsiva verso la morte. Vivo "come i pazzi che cullano le pietre
bisbigliano loro: amore".
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