La luce è scarsa ma calda. Traspira
dalla parete tesa che sfioro: umida nel suo essere, quasi rosa.
Devo iniziare a preparare le mie cose,
a breve dovrò uscire e come ogni volta l'idea mi stringe lo stomaco.
Il grande baule a tre scomparti che
contiene l'attrezzatura è nel solito angolo buoi, mi spiace
disturbare il suo riposo. Devo controllare che ci sia tutto e che sia
in ordine: scomparto uno, lo “-scopio”, con strumenti di
misurazione e percezione, pelli sensibili e visualizzatori ad ampio
spettro. Sto sviluppando una nuova macchina per la comunicazione
esterna ma è ancora un prototipo e questa volta mi aspetterà in
laboratorio.
Scomparto due: lastre impressionabili,
inchiostri e grafiti mobili. Le capsule devono essere tutte piene per
permettere una registrazione costante e simultanea dei dati rilevati.
La struttura del mio archivio è
imponente, lo riconosco. Tutto ciò che passa attraverso il baule
finisce, per mezzo di un delicato sistema di catalogazione, qui
dentro. Raccolgo tutto quello che mi permette di affrontare le
situazioni quando sono lì fuori.
L'archivio consiste in un'impalcatura
con tantissimi livelli che affonda nella parete morbida di fondo,
circondato da scale e scivoli, percorribili solo da una logica
personalizzata. Centinaia di sportellini si affacciano su questi,
riportando piccole targhe ingiallite, spioncini e serrature spanate.
L'archivio contiene tutto: tutto quello
che un'anima può raccogliere nel suo peregrinare. Devo ammettere che
non sono stato io a posarne la prima pietra; quando sono
arrivato in questa dimora ero irrequieto e giravo per tutte le stanze
fiutando, scrutando, assaggiando.
Anche se era pericoloso, non volevo mai
uscire fuori, le pareti morbide, la luce rosata, il borbottio del
suolo, tutto mi induceva a restare qui dentro.
In uno dei miei momenti di
perlustrazione ho sentito il bisogno di lasciare un segno dove
passavo per non ripercorrere troppe volte la stessa strada (è così
immenso qui dentro che all'inizio può essere molto complicato
districarsi). Grattando tacche ho percepito che c'era qualcosa di
diverso sulle superfici, non tutte reagivano allo stesso modo e
alzando gli occhi eccola, la prima infilata di cassettine
dell'archivio.
Come una lucertola impazzita ho
iniziato ad arrampicarmi per scoprirle tutte: strisciavo dentro sopra
intorno, lasciavo che le loro protuberanze segnassero il mio corpo.
In quel momento è iniziata la mia formazione: quelle cose venivano
da fuori e io ne ero affamato. Con mio grande stupore capii cosa
dovevo fare, ma prima dovevo testare ogni singolo reperto sulla mia
pelle: piccoli deliziosi frammenti di materia che reagivano a
contatto con me, ognuno a modo suo. Ne ascoltavo i racconti, antichi
come il canto delle tartarughe che hanno generato l'universo.
Quando ho capito che dovevo iniziare ad
uscire, la frustrazione mi ha morso le ginocchia. Non sapendo come
fare violentavo me stesso e mi lanciavo nelle situazioni con lo
schianto di pancia. Ho sempre avuto un istinto al fallimento e anche
in quelle circostanze lo usavo come arma contro me stesso: meno mi
piacevo più era facile uscire.
Poco per volta ho imparato a tuffarmi
con gli occhi socchiusi e il mondo che filtrava tra le palpebre mi
parlava, mi parlava con lo stesso alfabeto che avevo imparato
nell'archivio. Ogni volta che uscivo lasciavo che uno dei miei sensi
venisse travolto, fino a consumarsi.
Poi è arrivata l'idea del baule con i
suoi tre scomparti e le uscite sono diventate missioni, incontrare la
materia e liberarla, assaggiare le altre persone e capirle,
archiviare tutto e capirmi.
Facendo questa cosa mi sembrava di
riuscire a mettere a fuoco il mondo, di sentirne il canto e
comprenderlo, le vibrazioni non erano più onde che mi confondevano
ma curve armoniose con un senso, anche se solo per me.
Volevo dire loro un sacco di cose: mi
sentivo in dovere di rispondere alla sincera nudità con cui mi si
offrivano, mi muovevo tra le onde in una danza di gesti e umori:
carne legno saliva aria.
Dallo stomaco ho lasciato salire un
tremito, diaframma trachea gola, ho aperto la bocca per vibrare con
il mondo e mi sono trovato muto, il suono si è accartocciato e non
ha saputo uscire.
Ecco la certezza delle mie illusioni.
In quel suono nato morto c'era tutta la
violenza che non ho saputo gestire e il peso di questa incapacità mi
ha spinto dentro, le tende del sipario sono crollate su loro stesse e
un'oscurità di velluto mi ha abbracciato gli occhi.
Se sapessi come usarlo, direi che è
passato del tempo, ma non so se è così; ho imparato ad essere tanti
perchè qui è dove devo stare adesso e non posso non provarci.
Un'altra anima antica come la mia, mi ha insegnato
che al dono corrisponde un dovere ed evolvere è il mio.
Ho iniziato a grattare scaglie dalle
pareti morbide e le ho attaccate fuori per ricrearmi ed esistere.
Questi frammenti sono fragili e si disperdono presto e io devo
grattare ancora e sigillare i buchi.
Quando ho capito di essere muto
rispetto alle vibrazioni del fuori, mi sono strappato dentro e da lì
ha iniziato a uscire materia densa a fiotti, come vomito di bruco. Ha
invaso tutti gli scompartimenti dell'archivio intaccandolo e ha
continuato ad uscire fino al fuori, dove si è incrostata sulle
superfici.
Era il mio urlo disperato e
disarmonico: ho preso le croste e le ho spezzate, incollate,
distrutte, modellate. Tutto mi parlava, migliaia di vibrazioni mi
arrivavano addosso e io niente.
Non rispondere vuol dire non
difendersi ed essere una pedina nelle mano del caos.
Alla fine ci si abitua, si può
sopravvivere anche quando l'unica costante è il dolore: non c'è
sollievo se tutto ti batte addosso e la frattura dentro
rigurgita sostanza ad ondate. Ho capito che devo svuotarmi e per
farlo ho bisogno di far scontrare queste due materie, il dentro e il
fuori; e uscire sfinito dalla loro frizione. Fino alla prossima
ondata.
Queste maree sono le mie parole, se
dipingo chiudo gli occhi e canto.
Commenti
Posta un commento