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La volontà di essere qui_ (1/2 caleido 8)

La luce è scarsa ma calda. Traspira dalla parete tesa che sfioro: umida nel suo essere, quasi rosa.
Devo iniziare a preparare le mie cose, a breve dovrò uscire e come ogni volta l'idea mi stringe lo stomaco.
Il grande baule a tre scomparti che contiene l'attrezzatura è nel solito angolo buoi, mi spiace disturbare il suo riposo. Devo controllare che ci sia tutto e che sia in ordine: scomparto uno, lo “-scopio”, con strumenti di misurazione e percezione, pelli sensibili e visualizzatori ad ampio spettro. Sto sviluppando una nuova macchina per la comunicazione esterna ma è ancora un prototipo e questa volta mi aspetterà in laboratorio.
Scomparto due: lastre impressionabili, inchiostri e grafiti mobili. Le capsule devono essere tutte piene per permettere una registrazione costante e simultanea dei dati rilevati.
La struttura del mio archivio è imponente, lo riconosco. Tutto ciò che passa attraverso il baule finisce, per mezzo di un delicato sistema di catalogazione, qui dentro. Raccolgo tutto quello che mi permette di affrontare le situazioni quando sono lì fuori.
L'archivio consiste in un'impalcatura con tantissimi livelli che affonda nella parete morbida di fondo, circondato da scale e scivoli, percorribili solo da una logica personalizzata. Centinaia di sportellini si affacciano su questi, riportando piccole targhe ingiallite, spioncini e serrature spanate.
L'archivio contiene tutto: tutto quello che un'anima può raccogliere nel suo peregrinare. Devo ammettere che non sono stato io a posarne la prima pietra; quando sono arrivato in questa dimora ero irrequieto e giravo per tutte le stanze fiutando, scrutando, assaggiando.
Anche se era pericoloso, non volevo mai uscire fuori, le pareti morbide, la luce rosata, il borbottio del suolo, tutto mi induceva a restare qui dentro.
In uno dei miei momenti di perlustrazione ho sentito il bisogno di lasciare un segno dove passavo per non ripercorrere troppe volte la stessa strada (è così immenso qui dentro che all'inizio può essere molto complicato districarsi). Grattando tacche ho percepito che c'era qualcosa di diverso sulle superfici, non tutte reagivano allo stesso modo e alzando gli occhi eccola, la prima infilata di cassettine dell'archivio.
Come una lucertola impazzita ho iniziato ad arrampicarmi per scoprirle tutte: strisciavo dentro sopra intorno, lasciavo che le loro protuberanze segnassero il mio corpo. In quel momento è iniziata la mia formazione: quelle cose venivano da fuori e io ne ero affamato. Con mio grande stupore capii cosa dovevo fare, ma prima dovevo testare ogni singolo reperto sulla mia pelle: piccoli deliziosi frammenti di materia che reagivano a contatto con me, ognuno a modo suo. Ne ascoltavo i racconti, antichi come il canto delle tartarughe che hanno generato l'universo.

Quando ho capito che dovevo iniziare ad uscire, la frustrazione mi ha morso le ginocchia. Non sapendo come fare violentavo me stesso e mi lanciavo nelle situazioni con lo schianto di pancia. Ho sempre avuto un istinto al fallimento e anche in quelle circostanze lo usavo come arma contro me stesso: meno mi piacevo più era facile uscire.
Poco per volta ho imparato a tuffarmi con gli occhi socchiusi e il mondo che filtrava tra le palpebre mi parlava, mi parlava con lo stesso alfabeto che avevo imparato nell'archivio. Ogni volta che uscivo lasciavo che uno dei miei sensi venisse travolto, fino a consumarsi.
Poi è arrivata l'idea del baule con i suoi tre scomparti e le uscite sono diventate missioni, incontrare la materia e liberarla, assaggiare le altre persone e capirle, archiviare tutto e capirmi.

Facendo questa cosa mi sembrava di riuscire a mettere a fuoco il mondo, di sentirne il canto e comprenderlo, le vibrazioni non erano più onde che mi confondevano ma curve armoniose con un senso, anche se solo per me.
Volevo dire loro un sacco di cose: mi sentivo in dovere di rispondere alla sincera nudità con cui mi si offrivano, mi muovevo tra le onde in una danza di gesti e umori: carne legno saliva aria.
Dallo stomaco ho lasciato salire un tremito, diaframma trachea gola, ho aperto la bocca per vibrare con il mondo e mi sono trovato muto, il suono si è accartocciato e non ha saputo uscire. 
Ecco la certezza delle mie illusioni.

In quel suono nato morto c'era tutta la violenza che non ho saputo gestire e il peso di questa incapacità mi ha spinto dentro, le tende del sipario sono crollate su loro stesse e un'oscurità di velluto mi ha abbracciato gli occhi.

Se sapessi come usarlo, direi che è passato del tempo, ma non so se è così; ho imparato ad essere tanti perchè qui è dove devo stare adesso e non posso non provarci.
Un'altra anima antica come la mia,  mi ha insegnato che al dono corrisponde un dovere ed evolvere è il mio.
Ho iniziato a grattare scaglie dalle pareti morbide e le ho attaccate fuori per ricrearmi ed esistere. Questi frammenti sono fragili e si disperdono presto e io devo grattare ancora e sigillare i buchi.
Quando ho capito di essere muto rispetto alle vibrazioni del fuori, mi sono strappato dentro e da lì ha iniziato a uscire materia densa a fiotti, come vomito di bruco. Ha invaso tutti gli scompartimenti dell'archivio intaccandolo e ha continuato ad uscire fino al fuori, dove si è incrostata sulle superfici.
Era il mio urlo disperato e disarmonico: ho preso le croste e le ho spezzate, incollate, distrutte, modellate. Tutto mi parlava, migliaia di vibrazioni mi arrivavano addosso e io niente. 
Non rispondere vuol dire non difendersi ed essere una pedina nelle mano del caos.
Alla fine ci si abitua, si può sopravvivere anche quando l'unica costante è il dolore: non c'è sollievo se tutto ti batte addosso e la frattura dentro rigurgita sostanza ad ondate. Ho capito che devo svuotarmi e per farlo ho bisogno di far scontrare queste due materie, il dentro e il fuori; e uscire sfinito dalla loro frizione. Fino alla prossima ondata.

Queste maree sono le mie parole, se dipingo chiudo gli occhi e canto.

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