C'è una bambina, è seduta a terra con
le gambe incrociate e non le vedo il volto, è girata e mi porge la
schiena. Una zazzera di capelli chiari le accompagna il collo e una
tunica chiara l'avvolge, assorbendo ogni cosa del suo corpo.
Penso che sappia che la sto osservando
ma non si cura di farmelo capire, io sono arrivata fino a qui e lei
non si gira nemmeno: arricciata nell'unico fascio di luce di quel
luogo, contempla l'orizzonte nero e mi sembra di poter sentire il suo
sguardo scorrere su forme che io non riesco a vedere.
Mi giro per capire se posso tornare
indietro ma la strada da cui sono venuta non ha lasciato traccia, mi
sono fermata solo perchè ho visto la bambina seduta e ora mi rendo
conto che non ho ancora messo a fuoco dove mi trovo. E' un posto
senza pareti né confini, un cono che non ha imboccatura, tutto
intorno un cielo di velluto nero ci avvolge e il suolo è pietra
nera, liscia e lucida. Un solo raggio di luce scende dall'alto,
attraversa l'aria e si posa su di lei in un cerchio dorato. Il
bagliore è netto, non si diffonde nell'ambiente circostante ma
rimane vincolato alla sua traiettoria, una lancia splendente
scagliata da altrove.
Non so bene cosa devo fare, continuo a
spostare il peso da un piede all'altro confusa e indecisa.
Mi sembra che le spalle della bimba
abbiamo un piccolo singhiozzo, forse è sconsolata e magari una storia
la può far stare meglio. Non ho nulla con me se non la strada che ho
percorso per arrivare fin lì e decido che di quello le voglio
parlare.
Mi infilo le mani intasca e immagino di
danzare: ogni parola è un passo e ovunque questo sfiori fa comparire
dei dettagli, un sentiero, un cielo, un fiore. Il paesaggio inizia a
costruirsi e chiamo le mie marionette, per raccontarle di noi. Lego
le parole a fili d'argento e l'aria si riempie di sottili bagliori;
so che mi sta ascoltando attentamente anche se non si è ancora mossa
dal suo cerchio di luce.
Parto da lontano, le racconto della mia
terra incantata attaccata dai predoni, della costruzione della
fortezza e dell'arrivo della paura. La solletico con gli intrighi di
corte, le sfide, i duelli e le cavalcate notturne. Le continue fughe a
cui mi sottoponevo, i duri allenamenti dello spirito che mi
procuravano ferite profonde e la dolcezza delle anime antiche che si
sono accostate alla mia. Della mia amicizia con la Luna, di come
insieme facciamo le capriole nel mondo delle emozioni e di come cicli
e oscillazioni sono i movimenti dell'universo.
Faccio una pausa per riprendere fiato e
mi sembra quasi di poter leggere lo sforzo delle orecchie della
bambina per non perdersi una parola. Sullo sfondo nero intorno a noi
si è creato uno spettacolo di forme e colori che fluttuano dolci,
pronti a dissolversi con il mio respiro, ma prima che se ne vadano
riprendo a raccontare: sono decisa anche se fa male.
Cerco la mia vera voce chiara e
profonda. Le parlo delle anfore della fortezza, dalla forma morbida,
la superficie di terra cotta e del loro liquido splendente e vitale
che scorre senza sosta: un fiotto continuo esce da una dolce bocca posta in
basso.
Io, custode delle anfore, non sono
stata attenta, caparbia e debole allo stesso tempo, ho tappato la
grande apertura in alto che accoglieva il flusso e ora le giare sono
quasi secche. Si stanno crepando nell'aridità del loro contenuto.
Ecco perchè sono arrivata fin qui da
te, piccola bambina.
Tutta la mia fortezza, tutto il mio
mondo è in preda al panico per la sete, le gole bruciano come sabbia
nel deserto e tutti urlano il loro bisogno generando il caos.
Sono stata io a rinchiuderti in questa
prigione di velluto nero, ma ora ho attraversato il buio carica di
tutti i doni che l'universo mi ha fatto per farteli avere, con la
sola speranza che tu possa accettare la paura che ho di te.
Stiamo impazzendo per l'arsura della
sete e solo tu hai la forza di distruggere quello che abbiamo
costruito: unica Regina di questo trono.
Ho finito.
Mi rendo conto di essere sulle
ginocchia, non so in che punto del racconto abbiano ceduto. Ho il
capo chino, pronta a farmi decapitare.
Aspetto in silenzio senza ricordare
come si fa a respirare.
La prima cosa che metto a fuoco tra le
lacrime, sono due piedini minuscoli. Il bordo della tunica chiara le
sfiora le caviglie e quando si accuccia davanti a me la ingloba come
un guscio.
Alzo la testa lentamente temendo che
ogni gesto possa farla scappare o sparire.
Incontro il suo viso rotondo, mi
sorride.
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