Sono
fatta dell'impeto della natura calante. Quando il sole smette di
bruciare a allunga raggi dorati sui colli, mia casa. Sono rimasta
appesa più a lungo delle mie sorelle, ho lasciato la madre in
ritardo, volevo farle compagnia fino al sonno freddo. Nel periodo in
cui siamo rimaste sole, mi ha raccontato le storie antiche, mi
sussurrava roca la memoria buia conservata tra le sue radici. Non
aveva più nutrimento da darmi, e sono dovuta diventare più dura per
non cedere quel poco che ancora trattenevo dentro.
Ho
aspettato che anche l'ultima foglia si lasciasse scivolare tra le
braccia umide del terreno, ho aspettato che la nudità rendesse madre
come la roccia, prima di iniziare il mio viaggio.
La
piccola pietra che ha accolto la mia caduta, mi ha inciso il primo
segno. Da allora molti altri ricamano il mio guscio come pizzo
francese. In ogni solco una storia indimenticabile.
Ho
lasciato che il mantello di morte che ricopriva il terreno mi
trasportasse lontano, sicura che conoscesse meglio di me la strada
del mio destino.
Nel
lungo periodo trascorso con la madre sono cresciuta poco e
lentamente, ma questo ha permesso al mio dentro di rimanere intatto,
neanche una goccia è scivolata fuori, e ora quel calore lo sento
solido, memoria dell'universo al posto del cuore.
Ho
rotolato fino al mare che mi ha coperta di baci schiumosi, ha
modellato il mio guscio rendendolo forte e morbido. Ha saputo
appianare i miei giovani spigoli, per rendermi levigata e
accogliente, pronta alla corrosione del cammino.
Di
tutte le storie che mi solcano il guscio, voglio raccontare di quando
ho visto nascere i pirati.
Era
un giorno di coccole con il mare, frullavo sulla sabbia danzando il
suo ritmo, melodico e saporito, che sa sciogliere ogni pena.
Vidi
arrivare la zattera dietro i raggi arcobaleno di una bolla di mare:
era piccola e traballante, insicura sulle onde come un bambino sulle
gambe sotto il peso dei primi passi. Ma era un bambino di cento anni
quello che riversò terrorizzato sulla sabbia. Da dietro la mia bolla
resa dorata dai raggi lunghi del tramonto, non potevo fare a meno di
spiare la creatura piena di stupore. I primi giorni restò ad
annaspare in due dita d'acqua, come non si rendesse conto che gli
bastava alzarsi per scrollarsi di dosso il logorio delle onde. Mi era
sufficiente osservarlo per ricordare cose che giacevano assopite
dentro di me, forse le storie antiche di madre, ma passavo dal non
sapere al capire solo stando ad ascoltare. Quando iniziò a modellare
la sabbia, sapevo un sacco di cose di lui.
Il
mare continuava a cantare e l'universo faceva ruotare il suo carillon
di sole, luna, nuvola, pioggia, vento.
Avevano
iniziato a lavorare a una nave, una vera nave. Non era più solo, con
l'andare e il venire delle maree, altre creature erano scivolate
sulla spiaggia, colme di stupore all'inizio e poi sempre più sicure.
Lavoravano lentamente, erano così diversi tra loro, ognuno sapeva
fare qualcosa in cui l'altro mancava. Avrei potuto osservarli
all'infinito in questa danza incalzante, potevo percepire dove
avrebbero poggiato il piede, ancora prima che facessero il passo. Il
mio cuore intatto capiva tante cose.
Le
dita calde del sole arrivarono a tradimento, non ero stata attenta
nel ripararmi e mi scaldarono a lungo, diffondendo il mio aroma sulla
cresta delle onde più chiare. In quella stagione la nave era quasi
finita, mi ricordava un po' me: un guscio solido e robusto pronto ad
accogliere la vita e le intemperie, le luci e le tenebre delle
creature e dell'universo. Presto sarebbero partiti per il loro
viaggio e in quel momento, un'onda con il mio profumo, baciò la
chiglia della loro imbarcazione: bastò un istante e il mio sentiero
prese quella direzione.
Finii
incastonata a prua, come minuscola polena a soffiare sui venti dei
mari. Le creature a bordo erano ogni giorno più assetate di vita, si
lanciavano nelle tempeste ridendo come furie, affrontavano gli abissi
in cerca di perle rare, di bellezza cristallizzata e libertà rubata.
Sapevano
pensare, sapevano mentire, si schiantavano gli uni contro gli altri a
testa bassa, per capire il senso del dolore. Masticavano radici
antiche che poi sputavano come fili sottili e luminosi, pensieri
rielaborati.
L'energia
a bordo era un turbine costante, capitava spesso che qualcuno ne
avesse accumulata troppa e allora si gettava sui remi e dettava la
direzione della nave per un po', fino a che non si scaricava e
qualcun altro prendeva il suo posto. Scivolavamo sulle correnti o
remavamo contro, finivamo a secca o su abissi senza fondo, era una
battaglia in cui il cuore trasudava colore.
La
nave era popolata da tante creature, ma dalla mia posizione non
riuscivo a osservarle tutte. Alcune mi si avvicinavano più spesso,
mi cullavano con le loro storie e aiutavano il sale a farmi una
corona di cristalli sul guscio.
Erano
creature bellissime: una di loro era così nera che racchiudeva tutti
i colori. Un concentrato di rabbia che ammaliava con i suoi bagliori
arcobaleno per intrappolare e ferire. Una macchina da guerra
magnifica: gelida, suadente, mortale. Poi c'era la nebbia azzurra, si
infilava ovunque e non era nulla, fischiava la notte insieme alle
onde del mare, scivolava di giorno disturbando le altre creature. La
sua potenza era inafferrabile, era così incontenibile che spesso
distruggeva le cose, ma la morbidezza della nebbia la rendeva una
delle creature più dolci. Un contrasto fluttuante completamente
perso nella sua stessa inconsistenza.
Iniziarono
a chiamarsi con il nome di pirati la prima volta che si scontrarono
con un'altra nave. Nell'ultimo periodo la tensione a bordo era
cresciuta molto e quando scorsero l'imbarcazione in lontananza, la
videro come nemico e vomitarono le loro energie.
Trottole
impazzite sui ponti e in coperta, una danza di forme e colori, ogni
colpo era lotta pura e cieca, i colpi menati all'aria solo per
riuscire ad urlare.
Loro
ne uscirono entusiasti, io, per la prima volta, non riuscivo a capire
quello che provavo.
Avevo
osservato due creature nella battaglia, la prima per la sua magnifica
potenza. Un essere dai movimenti così lenti da risultare snervanti,
fissa e solida sempre nello stesso punto, ma così forte da non poter
essere mossa, anche se attaccata da tutti i lati. La sua bellezza era
sconvolgente: come la furia delle dee antiche.
L'altra
creatura era diversa, la scorgevo ogni tanto in un bagno di affetto
disperato. Aveva la pelle sottile e soffice, sembrava trasparente e
all'interno si apriva un mondo di bolle e di miele, giochi e sussurri
di luoghi lontani le danzavano dentro rilasciando un dolce calore.
Tutti sapevano di non poterla toccare, altrimenti sarebbe scoppiata e
si sarebbe dispersa. Più di una volta era venuta a rannicchiarsi
vicino a me per rattopparsi ferite lasciate da chi si era avvicinato
troppo. In quelle occasioni salutavamo le piccole bolle che
scappavano fuori e ci consolavamo sulla splendida traccia lasciata
dalla cicatrice. Io e quella creatura avevamo in comune il labirinto
di segni che ci mappava la corazza. Storie che ci raccontavamo sotto
i campi scuri di perle e stelle. Per un periodo mi aveva anche
staccata dalla prua e mi aveva portata al collo, gusci che si
proteggevano a vicenda, ma il mio cuore ha un peso che supera di gran
lunga le mie apparenti dimensioni, e mi ha dovuta posare, sciogliendo
i fili leggeri che mi avvolgevano, per rimettermi a confronto con la
furia del mare.
Lei
nella battaglia non si era distinta, forse aveva paura di rompersi,
più che altro andava a dare manforte o curare i feriti.
Da
quel giorno le cose hanno iniziato a cambiare. Si sono susseguite
altre battaglie e nuovi giochi di equilibrio tra i pirati della nave,
ma qualcosa era diverso. Ci è voluto tanto prima che iniziassi a
scorgere il velo sui loro occhi, non so se fosse la luce a provocarlo
o l'ombra a invocarlo, ma lentamente stavano diventando ciechi.
Iniziarono
a scontrarsi sul ponte, perchè non si erano accorti dell'altro,
iniziarono a subire piccole sconfitte in battaglia e poi a evitarle
del tutto, perchè non scorgevano le altre navi in lontananza. La
nave rallentava, i pirati erano spaventati, arrabbiati, sempre più
immobili.
Più
il velo si inspessiva sui loro occhi, più sembravano cacciatori
affamati, come se avessero dimenticato il semplice frullare
dell'energia e cercassero qualcosa che non era mai esistito. Paure
inesistenti diventavano bisogni impellenti, e tutti erano
sacrificabili.
In
quel periodo iniziarono i furti e le aggressioni, non scendevano più
dalla nave perchè indeboliti dalla loro cecità, si muovevano solo
in territori conosciuti, prosciugandoli, uccidendoli. Un fetore di
marcio si respirava ormai su tutta l'imbarcazione e le guerriglie
interne erano all'ordine del giorno.
Ero
completamente sconvolta, il dolore per il loro comportamento stava
aprendo un nuovo solco sul mio guscio e avanzava lento, profondo e
straziante.
Iniziai
a sentire il bisogno irrefrenabile di custodire la purezza che li
aveva visti nascere. I ricordi delle ginocchia tremanti ai primi
passi sulla sabbia, i raggi di luce che li baciavano tutti prima del
sonno. Non potevo restituirli loro, l'unico modo per aprire una
mandorla è spaccarne il guscio, e non è così che sarebbe andato il
mio destino.
Mi
voltai verso il ponte, dove cieche e fameliche si aggiravano le
splendide creature: si sarebbero potute salvare esclusivamente da
sole. Morendo, imparando a vedere in modo diverso, o trovando una
qualunque altra strada.
Io
non ero una polena, io non ero una nave, io non ero un pirata.
Come
una lacrima di bambina rotolai su un'onda morbida, mi staccai dalla
prua e ripresi il mio cammino. Tra le storie che la madre mi aveva
raccontato, c'era anche quella della memoria delle mandorle. Quello
che noi facciamo, i segni che ci decorano il guscio, sono racconti
che dobbiamo restituire per arricchire chi li ha vissuti, chi ha
imparato, chi ha fallito, chi è passato.
La
terra è l'unica che sa come cullare il mio guscio, con i suoi
granelli accoglie la morte e trasforma la materia. Si insinua
delicata tra i solchi, accarezza le mie protezioni con le sue
tenere viscere, scioglie le mie barriere e lentamente, come solo la
vera bellezza sa fare, giunge al mio cuore intatto. Resto nuda tra le
sue braccia e lascio germogliare tutto il mio sapere.
Spogliarmi
del guscio, sotto gli occhi delle tenebre terrose, mi restituirà il
sentiero e germoglierò in radici antiche, che daranno finalmente
voce alle mie storie.
Avrò
perso tutto, sarò immobile per sempre, sola e radicata a quella
zolla di terra che ha accolto la parte più dura di me, per godere
infine della mia vera nascita e insieme restituiremo alla primavera
il profumo dei mandorli in fiore.
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