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Storia di una Mandorla. I sogni sono pirati _ (petalo 1)


Sono fatta dell'impeto della natura calante. Quando il sole smette di bruciare a allunga raggi dorati sui colli, mia casa. Sono rimasta appesa più a lungo delle mie sorelle, ho lasciato la madre in ritardo, volevo farle compagnia fino al sonno freddo. Nel periodo in cui siamo rimaste sole, mi ha raccontato le storie antiche, mi sussurrava roca la memoria buia conservata tra le sue radici. Non aveva più nutrimento da darmi, e sono dovuta diventare più dura per non cedere quel poco che ancora trattenevo dentro.
Ho aspettato che anche l'ultima foglia si lasciasse scivolare tra le braccia umide del terreno, ho aspettato che la nudità rendesse madre come la roccia, prima di iniziare il mio viaggio.
La piccola pietra che ha accolto la mia caduta, mi ha inciso il primo segno. Da allora molti altri ricamano il mio guscio come pizzo francese. In ogni solco una storia indimenticabile.
Ho lasciato che il mantello di morte che ricopriva il terreno mi trasportasse lontano, sicura che conoscesse meglio di me la strada del mio destino.
Nel lungo periodo trascorso con la madre sono cresciuta poco e lentamente, ma questo ha permesso al mio dentro di rimanere intatto, neanche una goccia è scivolata fuori, e ora quel calore lo sento solido, memoria dell'universo al posto del cuore.
Ho rotolato fino al mare che mi ha coperta di baci schiumosi, ha modellato il mio guscio rendendolo forte e morbido. Ha saputo appianare i miei giovani spigoli, per rendermi levigata e accogliente, pronta alla corrosione del cammino.

Di tutte le storie che mi solcano il guscio, voglio raccontare di quando ho visto nascere i pirati.
Era un giorno di coccole con il mare, frullavo sulla sabbia danzando il suo ritmo, melodico e saporito, che sa sciogliere ogni pena.
Vidi arrivare la zattera dietro i raggi arcobaleno di una bolla di mare: era piccola e traballante, insicura sulle onde come un bambino sulle gambe sotto il peso dei primi passi. Ma era un bambino di cento anni quello che riversò terrorizzato sulla sabbia. Da dietro la mia bolla resa dorata dai raggi lunghi del tramonto, non potevo fare a meno di spiare la creatura piena di stupore. I primi giorni restò ad annaspare in due dita d'acqua, come non si rendesse conto che gli bastava alzarsi per scrollarsi di dosso il logorio delle onde. Mi era sufficiente osservarlo per ricordare cose che giacevano assopite dentro di me, forse le storie antiche di madre, ma passavo dal non sapere al capire solo stando ad ascoltare. Quando iniziò a modellare la sabbia, sapevo un sacco di cose di lui.
Il mare continuava a cantare e l'universo faceva ruotare il suo carillon di sole, luna, nuvola, pioggia, vento.

Avevano iniziato a lavorare a una nave, una vera nave. Non era più solo, con l'andare e il venire delle maree, altre creature erano scivolate sulla spiaggia, colme di stupore all'inizio e poi sempre più sicure. Lavoravano lentamente, erano così diversi tra loro, ognuno sapeva fare qualcosa in cui l'altro mancava. Avrei potuto osservarli all'infinito in questa danza incalzante, potevo percepire dove avrebbero poggiato il piede, ancora prima che facessero il passo. Il mio cuore intatto capiva tante cose.
Le dita calde del sole arrivarono a tradimento, non ero stata attenta nel ripararmi e mi scaldarono a lungo, diffondendo il mio aroma sulla cresta delle onde più chiare. In quella stagione la nave era quasi finita, mi ricordava un po' me: un guscio solido e robusto pronto ad accogliere la vita e le intemperie, le luci e le tenebre delle creature e dell'universo. Presto sarebbero partiti per il loro viaggio e in quel momento, un'onda con il mio profumo, baciò la chiglia della loro imbarcazione: bastò un istante e il mio sentiero prese quella direzione.
Finii incastonata a prua, come minuscola polena a soffiare sui venti dei mari. Le creature a bordo erano ogni giorno più assetate di vita, si lanciavano nelle tempeste ridendo come furie, affrontavano gli abissi in cerca di perle rare, di bellezza cristallizzata e libertà rubata.
Sapevano pensare, sapevano mentire, si schiantavano gli uni contro gli altri a testa bassa, per capire il senso del dolore. Masticavano radici antiche che poi sputavano come fili sottili e luminosi, pensieri rielaborati.
L'energia a bordo era un turbine costante, capitava spesso che qualcuno ne avesse accumulata troppa e allora si gettava sui remi e dettava la direzione della nave per un po', fino a che non si scaricava e qualcun altro prendeva il suo posto. Scivolavamo sulle correnti o remavamo contro, finivamo a secca o su abissi senza fondo, era una battaglia in cui il cuore trasudava colore.

La nave era popolata da tante creature, ma dalla mia posizione non riuscivo a osservarle tutte. Alcune mi si avvicinavano più spesso, mi cullavano con le loro storie e aiutavano il sale a farmi una corona di cristalli sul guscio.
Erano creature bellissime: una di loro era così nera che racchiudeva tutti i colori. Un concentrato di rabbia che ammaliava con i suoi bagliori arcobaleno per intrappolare e ferire. Una macchina da guerra magnifica: gelida, suadente, mortale. Poi c'era la nebbia azzurra, si infilava ovunque e non era nulla, fischiava la notte insieme alle onde del mare, scivolava di giorno disturbando le altre creature. La sua potenza era inafferrabile, era così incontenibile che spesso distruggeva le cose, ma la morbidezza della nebbia la rendeva una delle creature più dolci. Un contrasto fluttuante completamente perso nella sua stessa inconsistenza.

Iniziarono a chiamarsi con il nome di pirati la prima volta che si scontrarono con un'altra nave. Nell'ultimo periodo la tensione a bordo era cresciuta molto e quando scorsero l'imbarcazione in lontananza, la videro come nemico e vomitarono le loro energie.
Trottole impazzite sui ponti e in coperta, una danza di forme e colori, ogni colpo era lotta pura e cieca, i colpi menati all'aria solo per riuscire ad urlare.
Loro ne uscirono entusiasti, io, per la prima volta, non riuscivo a capire quello che provavo.
Avevo osservato due creature nella battaglia, la prima per la sua magnifica potenza. Un essere dai movimenti così lenti da risultare snervanti, fissa e solida sempre nello stesso punto, ma così forte da non poter essere mossa, anche se attaccata da tutti i lati. La sua bellezza era sconvolgente: come la furia delle dee antiche.
L'altra creatura era diversa, la scorgevo ogni tanto in un bagno di affetto disperato. Aveva la pelle sottile e soffice, sembrava trasparente e all'interno si apriva un mondo di bolle e di miele, giochi e sussurri di luoghi lontani le danzavano dentro rilasciando un dolce calore. Tutti sapevano di non poterla toccare, altrimenti sarebbe scoppiata e si sarebbe dispersa. Più di una volta era venuta a rannicchiarsi vicino a me per rattopparsi ferite lasciate da chi si era avvicinato troppo. In quelle occasioni salutavamo le piccole bolle che scappavano fuori e ci consolavamo sulla splendida traccia lasciata dalla cicatrice. Io e quella creatura avevamo in comune il labirinto di segni che ci mappava la corazza. Storie che ci raccontavamo sotto i campi scuri di perle e stelle. Per un periodo mi aveva anche staccata dalla prua e mi aveva portata al collo, gusci che si proteggevano a vicenda, ma il mio cuore ha un peso che supera di gran lunga le mie apparenti dimensioni, e mi ha dovuta posare, sciogliendo i fili leggeri che mi avvolgevano, per rimettermi a confronto con la furia del mare.
Lei nella battaglia non si era distinta, forse aveva paura di rompersi, più che altro andava a dare manforte o curare i feriti.

Da quel giorno le cose hanno iniziato a cambiare. Si sono susseguite altre battaglie e nuovi giochi di equilibrio tra i pirati della nave, ma qualcosa era diverso. Ci è voluto tanto prima che iniziassi a scorgere il velo sui loro occhi, non so se fosse la luce a provocarlo o l'ombra a invocarlo, ma lentamente stavano diventando ciechi.
Iniziarono a scontrarsi sul ponte, perchè non si erano accorti dell'altro, iniziarono a subire piccole sconfitte in battaglia e poi a evitarle del tutto, perchè non scorgevano le altre navi in lontananza. La nave rallentava, i pirati erano spaventati, arrabbiati, sempre più immobili.
Più il velo si inspessiva sui loro occhi, più sembravano cacciatori affamati, come se avessero dimenticato il semplice frullare dell'energia e cercassero qualcosa che non era mai esistito. Paure inesistenti diventavano bisogni impellenti, e tutti erano sacrificabili.
In quel periodo iniziarono i furti e le aggressioni, non scendevano più dalla nave perchè indeboliti dalla loro cecità, si muovevano solo in territori conosciuti, prosciugandoli, uccidendoli. Un fetore di marcio si respirava ormai su tutta l'imbarcazione e le guerriglie interne erano all'ordine del giorno.
Ero completamente sconvolta, il dolore per il loro comportamento stava aprendo un nuovo solco sul mio guscio e avanzava lento, profondo e straziante.
Iniziai a sentire il bisogno irrefrenabile di custodire la purezza che li aveva visti nascere. I ricordi delle ginocchia tremanti ai primi passi sulla sabbia, i raggi di luce che li baciavano tutti prima del sonno. Non potevo restituirli loro, l'unico modo per aprire una mandorla è spaccarne il guscio, e non è così che sarebbe andato il mio destino.
Mi voltai verso il ponte, dove cieche e fameliche si aggiravano le splendide creature: si sarebbero potute salvare esclusivamente da sole. Morendo, imparando a vedere in modo diverso, o trovando una qualunque altra strada.
Io non ero una polena, io non ero una nave, io non ero un pirata.

Come una lacrima di bambina rotolai su un'onda morbida, mi staccai dalla prua e ripresi il mio cammino. Tra le storie che la madre mi aveva raccontato, c'era anche quella della memoria delle mandorle. Quello che noi facciamo, i segni che ci decorano il guscio, sono racconti che dobbiamo restituire per arricchire chi li ha vissuti, chi ha imparato, chi ha fallito, chi è passato.

La terra è l'unica che sa come cullare il mio guscio, con i suoi granelli accoglie la morte e trasforma la materia. Si insinua delicata tra i solchi, accarezza le mie protezioni con le sue tenere viscere, scioglie le mie barriere e lentamente, come solo la vera bellezza sa fare, giunge al mio cuore intatto. Resto nuda tra le sue braccia e lascio germogliare tutto il mio sapere.
Spogliarmi del guscio, sotto gli occhi delle tenebre terrose, mi restituirà il sentiero e germoglierò in radici antiche, che daranno finalmente voce alle mie storie.
Avrò perso tutto, sarò immobile per sempre, sola e radicata a quella zolla di terra che ha accolto la parte più dura di me, per godere infine della mia vera nascita e insieme restituiremo alla primavera il profumo dei mandorli in fiore.


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