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Dimenticavo la Natura_

Ieri ero in moto (si mamma, senza casco) e tornavo tra i monti dopo essere scesa in città per del lavoro. Dopo un paio d'ore di curve sotto il sole abbiamo deciso di fare un pausa per ridare ossigeno a gambe e cervello. Parcheggiati in una curva (hanno uno scarso senso del pericolo) siamo scesi tra i lunghi pini di questi monti e li è arrivato uno di quei momenti "perfetti" in cui vorresti scattare un'istantanea della tua vita, perché tutto è nel modo e nel momento giusto.
Partiamo dal dettaglio non trascurabile che ero in compagnia di quel bel bocconcino dell'insegnate di yoga, tutto bicipiti, riccioli e lunghi silenzi. Senza neanche una parola di troppo ci siamo limitati a guardarci intorno, ognuno nel suo mondo ma entrambi sorpresi dello spettacolo che ci veniva offerto.
Il cielo era teso in un azzurro così perfetto da risultare indescrivibile, senza nuvole o sfumature a sporcarne la superficie. Tutte insieme si intrecciano le sensazioni che chi ama la montagna conosce bene: l'aria fresca che pare essere in grado di dissetare, il silenzio morbido che rimbalza sulle pareti dei monti circostanti, con il canto degli uccelli e un tuono lontano.
Le strade costruite dall'uomo sono poco più che graffi tra le rocce dominatrici e anche gli alberi, saldi nelle loro ancora di legno, cedono man mano che le dita della terra si avvicinano al cielo.
Nel posto dove mi sono fermata io li ho visti danzare: partono solidi, quasi immobili, per poi allungarsi in quei tronchi sottili che si stiracchiano fino a portare all'esasperazione la legge di gravità e l'equilibrio. In quel punto di confine inizia la danza, con la coreografia scandita dal vento e la scenografia decisa dal tempo.
Il crinale dei danzatori scende lento verso valle, solcato da gradoni orizzontali in cui si intrecciano, a sorpresa, minuscoli sentieri segnati da quella timidezza dei bambini che non vogliono disturbare gli adulti.
Il paesaggio si impossessa di tutte le sfumature di verde, marrone e grigio, tra le quali spiccano piccoli villaggi in cui le case sono tutte azzurre, come a creare un memorandum del colore del cielo in terra; a valle scorre un fiume, di quelli con grandi pietre piatte, punteggiato di templi sgargianti.
Risalendo con lo sguardo le curve decise e il volo dei falchi, si ritorna al punto in cui iniziano le nuvole ma proprio li, come il torace di un giovane guerriero, si innalza l'Himalaya.
Con fierezza prende le distanze dal paesaggio circostante, come se questi poveri monti non fossero alla sua altezza; loro scuri e annebbiati, lui bianco e tagliente. Anche il cielo gli lascia il suo spazio, lo sfiora con delicate sfumature rosa la sera e sbuffi di vento sulle vette, come camini di ghiaccio borbottanti. È il luogo degli dei e dei supereroi, a tutti gli altri le ginocchia cedono molto prima della vetta, stremati e rispettosi; anche solo fissarlo a lungo risulta difficile: come animali sottomessi si sente l'istinto di abbassare lo sguardo.

Se potessi scegliere mi piacerebbe tanto diventare un albero, proprio come Dafne. Anche perché la Natura è così strafottente da ammaliarci tutti, se ne frega a tal punto da diventare l'amore non corrisposto più sofferente e pazzo che l'essere umano possa mai provare. Parliamo di lei costantemente, sovrana di tutte le muse non perde occasione per ricordarci che non le interessiamo, vivi o morti non facciamo alcuna differenza per lei. E allora l'amore diventa frustrazione, rabbia furente che ci spinge a distruggerla e ad allontanarci da lei, per difenderci dalla sua capacità di ridurci il cuore in frammenti.
Selvaggiamente bella, sfugge al possesso, all'acquisto, alla sottomissione; danza noncurante dei nostri sguardi febbricitanti e pazzi, pazzi d'amore.

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